Il mal d’Africa, un’emozione che obnubila
Una forma di nostalgia che poco a poco si deposita sul fondo dell’anima e ci si nasconde per tornare a galla quando meno ci se l’aspetta e riempire gli occhi di lacrime per pochi istanti e al contempo rasserenare.
Il mal d’Africa è un mito che esiste.
Ci convivo da qualche anno.
I primi tempi non mi permetteva di pensare a nient’altro che ad un ritorno imminente in Kenya, a come potermici trasferire, come restare in contatto con le persone incontrate durante il viaggio, come aiutarle, come sentirmi meno futile ed inutile…
Già, perché tornare al lavoro in teatro a Valencia dopo il soggiorno nella savana fu un’esperienza durissima. Il mondo fatto di allestimenti, costumi, armonie e perfezionismi che fino a poche settimane prima era quello da me amato e nutrito, all’improvviso si era trasformato in fonte di disagio, vergogna anche.
Il mal d’Africa si è fatto strada dentro di me fin dai primi minuti di viaggio verso l’interno.
Un viaggio scomodissimo incastrata dentro ad un vecchio scuolabus con sedili per bambini, stracolmo di persone, borse e vivande, attraverso villaggi e lungo piste interminabili e dissestate, ricavate nella terra rossa, tra baobab e tamarindi.
Un viaggio iniziato poco dopo la mezzanotte a Malindi e nel quale ho realizzato che i bambini che hanno la fortuna di andare a scuola devono incamminarsi molto prima dell’alba per arrivare in tempo a destinazione, che la notte africana è una notte nera che amplifica anche i sospiri, dove il cielo sembra schiacciare tutto e tutti tanto pare vicino, che il bordo pista pullula di uomini e donne che percorrono chilometri al buio.
Il mio mal d’Africa però è fatto di luci e colori talmente accesi da non sembrare naturali, di spazi immensi che tendono all’infinito, di animali che popolano romanzi d’avventura e sogni d’infanzia, di lentezza, di sorrisi che toccano e restano
Il mio mal d’Africa è strettamente legato al Parco Nazionale dello Tsavo Est, istituito nel 1948 e costituito da pianure secche costellate di cespugli spinosi e stagni paludosi lungo il letto del fiume Galana, sovrastato dall’altopiano di Yatta. Due terzi del parco sono adibiti alla ricerca scientifica e quindi chiusi al pubblico.
Il mio mal d’Africa a volte è lieve come un sospiro appena percettibile, altre volte violento e doloroso. È un’emozione preziosa e che tutto sommato mi tiene in equilibrio. Una nostalgia da custodire… fino al prossimo soggiorno nel cuore del Continente Nero.